Prima della mia atletica e orgogliosa defenestrazione, lavoravo in una prestigiosa casa editrice. Il magazziniere Agostino, sedicente esperto di pratiche amatorie, con aria saputa mi diceva: “Te la sei presa una copia dell’agiéz?”. Secondo lui, di tutti i libri meravigliosi che uscivano ogni anno, l’agiéz era l’unico degno di sguardo. Un giorno, in biblioteca d’arte, me lo presi. Lo sfogliai, tavola dopo tavola. Mi guardavo intorno, arrossivo, chiudevo, riaprivo e intanto venivo travolta dalle immagini al punto da ignorare luogo, ora e mummie in transito.
Possibile, che da un testo stampato in migliaia di copie, su un artista dell’Ottocento, con riproduzioni di disegni in bianco e nero, si sprigionassero tanta vita e tanta passione e tanto sesso?
Vi siete risvegliati? Ecco, lo sapevo che avreste fatto un saltino! Basta dire “sesso” e l’occhietto si riapre… funziona sempre!
Dicevo, pagina dopo pagina sempre loro: due corpi innamorati, allacciati, variamente combinati: lui e lei: Hayez e la Zucchi, Il pittore e la modella (o meglio il pittore e la “monella”).
Non volessimo credere ai suoi contemporanei, non volessimo credere alle sue Memorie, come possiamo dubitare di questi disegni? Doveva essere proprio un grande amante Francesco Hayez.
E poi, basta guardare lei, la Carolina, che nel ritratto della GAM, a Torino, se lo mangia letteralmente con gli occhi. “Ma smettila, posa i pennelli e vieni qua”, sembra dirgli.
Lei è malata quel giorno - così recita il titolo del dipinto - direi di quella febbricola simpatica che regala un vago senso di ubriachezza, quel “trentasette e tre” che allora non esisteva (non esistendo ancora il termometro moderno) ma che oggi permette ad alcune privilegiate di addurre una leggera indisposizione e stare a letto.
“Vieni qua bel topolone…” (Hayez e i santi padri della Storia dell’arte mi perdonino!).
Lui posa tutto e inizia le danze, a un certo punto, dopo dieci o dodici tavole - sto ancora sfogliando il catalogo - lui si ferma e dice: “Dai Carolina, adesso mettiti in posa, perché devo dipingere l’angelo dell’Annunciazione” (anche questo in GAM).
Il ritratto di Carolina in camicia notte, su una parete, l’angelo dell’Annunciazione sull’altra. Tra l’uno e l’altro i disegni erotici (Hayez privato, Umberto Allemandi, Torino 1997).
Mi ha sempre divertito questa doppia lettura. Perché si capisce.
Si capisce benissimo chi le donne le accarezzava e chi invece le misurava!
L’artista che ama e pratica le donne (come si diceva una volta), va oltre la forma del corpo, arriva a restituire la morbidezza delle carni, la sericità della pelle, il tepore del respiro. Quando poi la donna è la sua, le dipinge negli occhi il ricordo di ciò che è appena stato e sul sorriso la promessa che tutto accadrà di nuovo.
Ho tra le dita il filo rosso della passione, vado indietro nel tempo e mi diverto a rileggere le biografie degli artisti che tanto mi annoiavano da ragazza. Riprendo in mano il Vasari e mi fermo su un altro pittore angelico: Raffaello.
Me lo figuro trentenne, cortigiano del papa. Intellettuale, archeologo, architetto e pittore.
Non mi basta, mi leggo l’epistolario e lo scopro spiritoso, umile e colto.
Non mi basta e leggo i suoi sonetti e, come se già non si sapesse, lo scopro innamorato.
“Tal che tanto ardo, che né mar, né fiumi
Spegner potrian quel foco, ma non mi spiace”
Le tracce di questo calore, che si perdono nelle opere ufficiali, emergono delicate e inequivocabili nei ritratti di colei che amò sopra tutte: Margherita Luti, figlia di un fornaio di Trastevere.
Nel ritratto della Fornarina, capelli neri e pelle candida, seminuda su sfondo scuro (Roma, Galleria Nazionale di Arte Antica), o in quello detto La Velata (Firenze, Palazzo Pitti) ecco gli occhi colmi e il sorriso complice della donna che risponde amore all’amore.
E’ la sua donna. La sua sposa segreta. Finita la seduta di posa tornerà tra le sue braccia, e il giorno dopo (o in quelli a venire) andrà a prestare volto e corpo alla ninfa Galatea (Roma, Villa la Farnesina), alla Madonna Sistina (Dresda, Gemäldegalerie), all’efebo delicato che ci guarda dritti negli occhi dalla Scuola di Atene (Stanze Vaticane).
"Quanto fu dolce il giogo e la catena
de’ toi candidi braci al col mio volti
Che sogliendomi io sento mortal pena.
Ma un giorno l’incantesimo si spezza.
Il cardinal Bibbiena vuole dargli in sposa la nipote dunque la relazione con la bella popolana deve essere interrotta.
L’amore inoltre distoglie, distrae, rallenta, involgarisce.
Raffaello, il divin fanciullo, potrebbe perdere il favore del papa.
Così a malincuore, ufficialmente, obbedisce, si allontana, ma ancora la cerca di nascosto, la ama di notte, dipinge di giorno. Si rode di gelosia, si ammazza di lavoro, infine si ammala e muore.
Cosa dire di più? Già allora era difficile far andare d’accordo amore e precariato.
Devo essere un po’ cinica, altrimenti piango…
LICENZE POETICHE
Prima licenza: nel mio racconto per seguire il ritmo, cito prima l’Angelo e poi il ritratto di Carolina “malata”, in realtà l’ordine cronologico di questi due dipinti è inverso. Entrambi vengono comunque realizzati tra il 1824 e il 1825, nel pieno della relazione tra il pittore e la sua modella che durò dal 1820 al 1830.
Seconda licenza: Nelle sue memorie Hayez da “vero” galantuomo ci spiega chiaramente che Carolina in occasione del dipinto tra le lenzuola stava benone e devo dire che, al suo posto, sarei stata benone anch’io.